Hate Speech: quando le parole d'odio imbavagliano

di Elisa Coco

Hate Speech: quando le parole d'odio imbavagliano

Paola Rizzi ha curato insieme a Silvia Garambois per GiULiA Giornaliste il volume #STAIZITTA Giornalista!, che, alternando testimonianze e approfondimenti, fornisce un quadro molto dettagliato dell'odio online contro le donne, e in particolar modo contro le giornaliste, in Italia.

Le abbiamo rivolto alcune domande sull'hate speech come violenza di genere online

Cos'è l'hate speech contro le donne e come si manifesta? Perché nel caso delle donne sono dominanti gli insulti a sfondo sessuale, il body shaming e lo slut shaming, le minacce di stupro?

Da anni le principali rilevazioni dell'odio online, come il Barometro dell'odio di Amnesty international e la Mappa dell'intolleranza di Vox Osservatorio dei diritti, che monitorano i social network (principalmente Facebook e Twitter), vedono le donne come il principale bersaglio di hate speech
L'hate speech viene definito in diversi modi ma, facendo una sintesi delle varie definizioni (si veda ad esempio quella dell'European Commission against Racism and Intolerance del Consiglio d'Europa), possiamo dire che l'hate speech non è semplicemente l'insulto o la minaccia rivolta a una singola persona, ma a una persona in quanto appartenente ad una categoria: quindi l'odio si manifesta contro la persona perché donna, nera, disabile, omosessuale. 
Nel caso delle donne quello che le testimonianze che abbiamo raccolto e tutti gli studi mostrano è che l'insulto si manifesta innanzitutto utilizzando come bersaglio il corpo, sia come body shaming ("racchia", "cessa", ecc.) che come slut shaming ("non ti meriti di fare o dire quello che fai e dici perché sei in quella posizione perché sei una put..na"). Le minacce di stupro poi tengono insieme le due cose. 
Il punto è ridurre la donna al suo corpo, denigrarla denigrandone e sessualizzandone il corpo. Ci sono poi anche insulti più soft: "taci e torna in cucina". In ogni caso il meccanismo per zittire o attaccare utilizza gli strumenti del sessismo e della misoginia all'interno di un classico schema patriarcale che ancora oggi non tollera le donne che prendono parola, che eccellono nelle professioni.

Qual è il legame tra le parole d'odio online e la vita offline, nelle testimonianze delle giornaliste che avete raccolto?

Vivere sotto la costante minaccia delle parole d'odio, sapere che quello che si scrive o racconta in un servizio televisivo avrà come risultato una pioggia di insulti e di minacce sul proprio profilo è destabilizzante. Alcune delle giornaliste che abbiamo intervistato raccontano di aver cominciato a temere di trovarsi un aggressore sotto casa, magari istigato dall'odio digitale, oppure di aver deciso di togliersi dai social. Nel mondo di oggi, in cui la sfera digitale fa parte dello spazio pubblico, questo vuol dire togliersi uno spazio di parola. Oppure in altri casi alle giornaliste è stato consigliato dai capi di non occuparsi per un po' di certi argomenti. Che è esattamente l'obiettivo degli hater. L'Unesco ha misurato l'impatto nella vita reale delle molestie digitali: il 20% ha seguito anche nella vita reale.

Come ci si può difendere dall'hate speech? Cosa sono le "scorte digitali"?

Difendersi dall'hate speech è la sfida più grande e difficile. Non esiste un'unica risposta anche perché c'è il tema delicatissimo di bilanciare il rispetto della dignità e dell'incolumità, anche digitale, della persona, con la libertà di espressione che deve essere sempre garantita, entro i limiti appunto di quel rispetto. Esistono diversi progetti di legge che si occupano di definire questi limiti, allargando il perimetro delle tutele. A livello europeo di questo si è occupato il Digital Service Act che deve essere adottato dai paesi dell’Unione. L'unica legge ora esistente è la legge tedesca NetzDg che però è stata criticata perché di fatto demanda troppo il controllo alle piattaforme. Anche la deputata Laura Boldrini ha depositato un progetto di legge simile. Il controllo sui contenuti in mano a gestori delle piattaforme, che sono monopolisti privati, è uno degli elementi critici in generale di tutte le proposte. Insomma è una materia nuova e complessa e molto sensibile. 
Partendo dal basso si può dire che alcune esperienze, come quelle delle scorte mediatiche, funzionano: si tratta di gruppi di attiviste/i che affiancano i giornalisti e le giornaliste bersaglio e fanno contronarrazione sui social o aiutano a smascherare i profili degli haters.

Chi sono gli odiatori online? È una pratica diffusa anche tra giovani e giovanissimi?

Esistono diverse categorie: i social come ormai si sa favoriscono e premiano la polarizzazione dei contenuti, premiano gli odiatori con i like che creano una gratificazione, perché l'odio è più virale. A livello base quindi l'odio alimenta uno meccanismo di gratificazione che può aizzare le persone più fragili
Ci sono anche le centrali dell'odio, che agiscono in modo orchestrato per fini politici o di altro tipo, sul modello della Bestia salviniana: se un politico influente critica per esempio una giornalista, magari in modo allusivo, poi sono i suoi migliaia di follower che portano a termine il lavoro. La responsabilità è di chi gestisce i profili e non attua la moderazione. Succede continuamente. Si parla anche di profili bot, falsi, che operano su automatismi. 
Tra i giovani e i giovanissimi uno dei fenomeni più preoccupanti è la condivisione non consensuale di materiale intimo, cioè la pratica diffusa di scambiarsi foto intime di donne su chat o gruppi. Certamente qui l'educazione ai sentimenti e ai mezzi digitali gioca un ruolo importante. 

NoiNo.org è un progetto comunicativo ed educativo sulla violenza di genere. Che stimoli possiamo dare a insegnanti, formatrici e formatori, genitori per combattere il dilagare dell'hate speech in rete? 

Innanzitutto bisogna spiegare bene che il mondo digitale è un pezzo di mondo reale, che non può essere un far west senza regole perché le parole hanno delle conseguenze. Ci vuole quindi un'educazione alla comunicazione non ostile e all'uso dei mezzi digitali che è quasi totalmente assente. Si parla ormai di violenza di genere digitale come fenomeno dilagante e sempre più preoccupante. Il punto però sta a monte: l'hate speech misogino lo si contrasta se si contrasta una cultura misogina e sessista, partendo dalle piccole cose e promuovendo modelli positivi di affermazione delle donne. 



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