di redazione di NoiNo.org
Come parlare con una classe delle superiori di identità, stereotipi e violenza di genere... senza dire una parola? Usando le tecniche del
"teatro dell'oppresso", per far emergere in modo spontaneo l'immaginario e il vissuto delle ragazze e dei ragazzi a proposito di maschilità, femminilità e relazioni. Ecco il racconto del laboratorio che si è svolto nell'istituto Laura Bassi di Bologna nel gennaio 2019, frutto della collaborazione tra l'associazione
Il Progetto Alice e il
Gruppo Scuola Cassero.
"Femminile", "maschile": a cosa ci riferiamo quando usiamo queste parole per riconoscerci? In che modo l'immaginario di genere plasma i nostri corpi e gli spazi che occupano? Quando e come le norme di genere toccano la qualità della nostra presenza, validando o inibendo il nostro modo di relazionarci ed esprimerci?
Abbiamo pensato ai corpi delle persone partecipanti come una risorsa preziosa per indagare il rapporto tra stereotipi di genere e violenza.
Il primo obiettivo del laboratorio è stato raggiungere una nozione condivisa di soggettività, ragionando con le studentesse e gli studenti sulle
differenze tra sesso biologico, orientamento sessuale, espressione di genere ed identità di genere. Nella conduzione del laboratorio abbiamo rivolto particolare attenzione all'opposizione concettuale esterno/interno applicata all'esperienza dei/lle partecipanti. Si sa che con "espressione di genere" si intendono le caratteristiche riconoscibilmente femminili e maschili di un soggetto in un dato contesto culturale (esterno), mentre "l'identità di genere" costituisce quello spazio psichico (interno) che ci permette di chiederci: "Come mi sento? Cosa desidero?", al quale facciamo riferimento quando cerchiamo di capire cosa significhi, per noi, essere donna, uomo, transgender, persona non binaria.
Una studentessa ha condiviso che in alcuni paesi, come l'India, gli uomini possono indossare la gonna. Abbiamo riflettuto insieme sul fatto che
i contesti culturali sono variabili, come anche le norme sociali che stabiliscono se un indumento sia femminile o maschile. "Se una donna vuole avere figli non potrà lavorare nell'esercito!" ha detto un'altra studentessa. Immaginare un'ufficiale in congedo di maternità non è intuitivo, perché la sfera di relazioni che caratterizzano la professione militare è declinata quasi esclusivamente al maschile nell'immaginario collettivo, e questo influisce anche sulla capacità di una ragazza adolescente di immedesimarsi in quella veste.
Il concetto di
violenza di genere è stato quindi trattato prevalentemente in questo senso: come preclusione della possibilità di mettere in discussione le categorie identitarie
eteronormate, di interpellare autenticamente i propri desideri, siano essi relativi alla sessualità, alle ambizioni personali, all'immagine che si vorrebbe offrire di sé, o altro. Violenza intesa come violazione di questo spazio inalienabile, in una cultura storicamente caratterizzata da relazioni di dominio degli uomini sulle donne.
Il secondo obiettivo del laboratorio è stato
coinvolgere i partecipanti in attività che mettessero in gioco prevalentemente il corpo e la comunicazione non verbale, per esplorare quale fosse
l'immaginario di genere predominante nel gruppo classe. Per progettare l'attività abbiamo attinto ad una tecnica di teatro dell'oppresso. Sono stati creati due gruppi misti, "statue" e "spettatori". Le statue si sono poste come sculture viventi che raffigurassero l'idea di femminilità mentre gli spettatori realizzavano un silent floor scrivendo parole-chiave su un cartellone, intitolato "tutto ciò che ti viene in mente se pensi a femminilità". I due gruppi sono poi entrati in relazione: gli spettatori hanno avuto la possibilità di modificare le sculture spostando i corpi dei/lle compagni/e per avvicinarle alla propria idea di femminilità, e fino a quando non si è raggiunto un accordo il gioco è andato avanti. L'attività è stata svolta nel maggior silenzio possibile per favorire, in questa fase, scambi comunicativi non verbali, fatti di sguardi e presenza corporea. Successivamente i ruoli si sono invertiti, e le nuove statue e spettatori hanno lavorato sull'idea di mascolinità. Nell'attività di de-briefing successiva abbiamo verbalizzato ed elaborato insieme il materiale e le interazioni frutto dell'attività.
Lavorando con il corpo
ragazzi e ragazze hanno rappresentato i rapporti tra i generi prevalentemente nella forma di rapporti di forza. La maggior parte di loro ha rappresentato sculture in cui personaggi maschili (non sempre impersonati da ragazzi) assumevano atteggiamenti di prevaricazione nei confronti di personaggi femminili (non sempre impersonati da ragazze) o di altri uomini. L'opportunità di modificare le sculture ha permesso ai compagni di intervenire sui rapporti di forza rappresentati. Quando abbiamo chiesto perché secondo loro avessero messo in scena prevalentemente interazioni violente, uno studente ha risposto: "Perché è quello che vediamo e sentiamo intorno a noi ogni giorno. I telegiornali, le notizie, le immagini."
Le libere associazioni di parole nei silent floor su femminilità e mascolinità hanno fatto emergere gli
stereotipi di genere. Nonostante riferimenti al corpo fossero presenti in entrambi i silent floor, quello sulla femminilità ne era letteralmente saturato. Quello che è emerso è tuttavia un corpo quasi esclusivamente definito dalla propria potenzialità seduttiva e procreativa, mentre sono mancati riferimenti ai temi dell'indipendenza economica e del saper-fare, presenti nel silent floor sulla mascolinità, dove la corporeità maschile era associata alla prestazione sportiva, all'aspetto fisico ed alla protezione.
C'è dunque un legame tra stereotipi di genere e violenza. L'ultima parte del laboratorio è stata dedicata a indagare su questa affermazione partendo dall'esperienza fatta insieme e con il supporto di altri contenuti multimediali.
Il corpo costituisce uno strumento ideale per realizzare questo tipo di attività.
Nella memoria implicita, corporea, si trovano stratificate le esperienze di vita precoci, le radici più antiche del nostro immaginario relazionale. Questa memoria, a cui non possiamo attingere consapevolmente, contribuisce tuttavia ad arricchire il setting con un bagaglio di informazioni silenziose, che ogni partecipante mette in gioco nella forma di gesti, sguardi, posizioni del corpo nello spazio. I corpi sono poi fonti di relazioni dinamiche, capaci di generare contesti, o sovvertire un ordine dato, con la loro semplice presenza. È
J. Butler, teorica femminista, ad affermare che "L'ingiunzione ad essere un dato genere produce necessariamente dei fallimenti, una varietà di configurazioni incoerenti che, nella loro molteplicità, eccedono e sfidano l'ingiunzione che li genera."
Diventa allora indispensabile che le/gli adolescenti acquisiscano linguaggi per incontrarsi e relazionarsi tra diversità. Le attività che coinvolgono il corpo e la comunicazione non verbale costituiscono una risorsa importante a questo fine, poiché permettono di sperimentare e saggiare i confini tra sé e l'altro/a, le loro differenze e ciò che li accomuna: l'alfabeto delle relazioni interpersonali. Per esempio, durante il laboratorio abbiamo chiesto alle persone partecipanti come si fossero sentite nel momento in cui una compagna o un compagno modificava la loro postura, sollecitando in loro
una riflessione sul consenso, ovvero la capacità di ogni individuo di relazionarsi con l'altro aprendosi all'ascolto, di sé e dell'altro.
lascia un commento