Condivisione non consensuale: la violenza è di gruppo su Telegram

di Elisa Coco

Condivisione non consensuale: la violenza è di gruppo su Telegram

Silvia Semenzin è autrice, insieme a Lucia Bainotti, della ricerca, pubblicata da Durango Edizioni con il titolo Donne tutte puttane. Revenge porn e maschilità egemone, dedicata alla condivisione non consensuale di materiale intimo. 

Le abbiamo chiesto di raccontarci cos'è la Condivisione non consensuale (CNC).

Perché non va bene chiamarlo "Revenge Porn" e perché invece questa espressione ha avuto molta diffusione e successo, soprattutto dal punto di vista mediatico?

La parole "Revenge porn" è un'invenzione mediatica nata sull'onda di casi come quello di Tiziana Cantone. Tuttavia, la letteratura femminista non concorda con l'uso del suddetto termine.
Come diciamo anche nel libro, non dovremmo parlare di revenge porn per due ragioni: la prima è che il concetto di vendetta conduce al cosiddetto 'victim blaming', ovvero l'idea che chi diventa vittima di violenza abbia fatto qualcosa di sbagliato e che quindi, in un certo senso, 'se la sia cercata'. Chi diventa vittima di condivisione senza consenso di materiale intimo molto spesso si sente dire che poteva stare più attenta, che sapeva a che cosa andasse incontro e che quindi poteva evitarlo... quello che invece abbiamo voluto sottolineare noi con il nostro lavoro è che nella maggior parte dei casi la vendetta non c'entra nulla con questo fenomeno. Al contrario, il problema va ricercato nella preoccupante normalizzazione di questi comportamenti, molto spesso giudicati 'da maschi' e trattati come semplice goliardia. Quando parliamo di condivisione non consensuale, inoltre, mettiamo al centro l'importanza del consenso della persona ritratta: un consenso che non solo è sessuale (e quindi relativo alla nostra sfera intima e alla nostra libertà di dire di no), ma anche digitale (e quindi relativo all'uso che persone terze fanno dei nostri dati e contenuti). L'altro motivo per cui non dovremmo parlare di revenge porn è che, in mancanza di consenso, non possiamo parlare di pornografia. Ritenere la nudità femminile intrinsecamente pornografica è problematico e discriminatorio nei confronti dei nostri corpi.

Nel libro Donne tutte puttane avete svolto una ricerca "sul campo" rispetto ai gruppi telegram in Italia nati e utilizzati appositamente per lo scambio e la diffusione di materiale intimo non consensuale. Ci puoi raccontare cosa avete trovato, qual è la panoramica del fenomeno, l'entità e i meccanismi di funzionamento di questi gruppi? E perché proprio Telegram? Ci sono pratiche simili anche su altre piattaforme social? Esistono dei dati specifici sul fenomeno?

La condivisione non consensuale di materiale intimo è un problema cross-platforms, ovvero che avviene in più luoghi digitali e che si intreccia proprio all'uso crescente di social network e piattaforme. Noi abbiamo scelto di analizzare Telegram per le particolari caratteristiche che la piattaforma presenta e che aiutano il fenomeno ad espandersi e radicalizzarsi: Telegram è un'applicazione di messaggistica istantanea che permette, fra l'altro, la creazione di gruppi fino ai 200mila utenti, l'utilizzo di pseudoanonimato e chat segrete. Queste funzioni hanno contribuito a creare un immaginario collettivo per cui molti utenti credono di poter operare in maniera più protetta e sicura rispetto ad altre applicazioni (come ad esempio Whatsapp). Ma se la protezione della privacy è sacrosanta nell'era digitale, il problema è quando lo pseudoanonimato diventa un veicolo per perpetrare violenza: è proprio grazie a questo immaginario, infatti, che migliaia di uomini si incontrano quotidianamente su Telegram per condividere foto e video intimi di donne senza il loro consenso.
Il fenomeno ha una dimensione gravissima e preoccupante: da quando abbiamo svolto noi la ricerca, selezionando un campione di 50 gruppi e canali, si stima che questa pratica sia cresciuta dell'oltre 70% e che ad oggi siano centinaia i gruppi dedicati alla CNC su Telegram. E mentre gli utenti nei gruppi superano le 100 mila persone, non abbiamo dati certi sul numero di vittime, che però sono in continua crescita e sono sempre più giovani.

La diffusione non consensuale di materiale intimo fa parte di una sorta di rituale di maschilità. È una "cosa da maschi", spesso neanche percepita come violenza da chi la agisce. Come tutte le forme di violenza di genere, non è quindi un fenomeno eccezionale, marginale, "deviante" (e i numeri della sua diffusione ce lo confermano), ma ha a che fare con la costruzione sociale del maschile e con il potere. Quello che nel libro chiamate la "maschilità egemone". Puoi parlarcene?

I media tendono a trattare i partecipanti a questi gruppi come 'pazzi', 'pedofili', 'stupratori', ma questo non è affatto vero. Come ben sottolinei, si tratta invece di un fenomeno legato alla costruzione sociale di ciò che è considerato 'da maschi' e 'da femmine'. Il concetto di maschilità egemone è utile perché da un lato indica una serie di pratiche performative, dall'altro una caratteristica della struttura di genere che orienta e supporta la società patriarcale.  Gli uomini fin da giovani vengono socializzati a mostrare un costante desiderio sessuale: tipicamente il sesso e la sessualità costituiscono un collante per le relazioni tra uomini e un modo per costruire diverse forme di maschilità, ad esempio attraverso la condivisione delle esperienze sessuali e il consumo di materiale pornografico. Il desiderio sessuale maschile viene così esasperato che diventa davvero difficile riconoscere l'importanza del consenso e della libertà sessuale femminile: la donna resta un oggetto sessuale utile a soddisfare i bisogni maschili e la linea tra sessualità e violenza si assottiglia fino a diventare quasi invisibile. Trattandosi però di un problema culturale e non biologico, possiamo combatterlo e decostruirlo.

Quali sono le altre violenze digitali a cui la diffusione non consensuale si accompagna? Che relazione esiste tra violenza di genere online e offline?

La violenza di genere online è un continuum della violenza di genere. È solo un'estensione attraverso gli strumenti digitali di una discriminazione sociale preesistente. Altre forme di violenza possono essere lo stalking, le cybermolestie (come l'invio di dickpic), il linguaggio d'odio (hate speech), il doxxing, l'hacking, il deepfake porn... sono innumerevoli le facce che la violenza di genere può prendere attraverso il digitale. Consiglio la lettura del nostro volume per saperne di più.

Esiste un nesso secondo te tra pratiche di molestia e violenza sessuale online e la mancanza o insufficienza di percorsi di educazione alla sessualità e al consenso nelle scuole e nelle agenzie educative in generale? Si può contrastare il fenomeno senza demonizzare il sexting consensuale e in generale le pratiche sessuali online?

Certamente. La mancanza di educazione all'affettività, alla sessualità, al consenso e alle stesse strutture digitali è largamente responsabile di fenomeni violenti. In Italia siamo ancora allergici all'idea di fare educazione sessuale nelle scuole e non ci rendiamo invece conto che, se non insegniamo alle persone ad avere un approccio più positivo alla sessualità, si continueranno a riprodurre dinamiche tossiche (che spesso vengono emulate anche in seguito al consumo eccessivo di pornografia mainstream). Bisognerebbe invece insegnare che Internet ha cambiato anche la sessualità e che quindi bisogna adottare dei 'preservativi digitali', ad esempio nel sexting. Questo tipo di lavoro è esattamente ciò che con la mia associazione, Virgin & Martyr, cerchiamo con difficoltà di fare ogni giorno.

Nell'esperienza di chi lavora nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, la condivisione non consensuale è una pratica diffusa anche tra adolescenti e che spesso si consuma proprio nella comunità scolastica. Ci sono dati e informazioni in questo senso? Quali indicazioni daresti ad insegnanti, educatrici ed educatori, genitori per affrontare casi di questo tipo quando si verificano? come supportare chi subisce diffusione non consensuale, come costruire, per esempio dentro la scuola, comunità fisiche e digitali che si responsabilizzano collettivamente per disinnescare il meccanismo della condivisione non consensuale? Sul piano della prevenzione, come si può lavorare per contrastare il fenomeno dal punto di vista maschile?

Per dati più specifici rimando ancora una volta al nostro volume, però posso confermare che il fenomeno è largamente esteso tra giovani e adolescenti. Ad insegnanti ed educatori cerco di ricordare sempre che è essenziale creare spazi sicuri e non giudicanti per chi diventa vittima di questo reato: offrire supporto psicologico a scuola, integrare nelle proprie lezioni argomenti legati alla sessualità e all'affettività, insegnare il rispetto della sfera intima altrui e della libertà sessuale di ognun* di noi... le survivor di questa violenza possono portarsi dietro i traumi per tantissimo tempo: ansia, depressione, paura e nel 51% dei casi, anche il pensiero del suicidio. Non possiamo rivittimizzarle dicendo loro che se la sono cercata, ma dobbiamo invece stimolare il dibattito responsabilizzando i colpevoli e insegnandogli che "essere maschi" non deve voler dire essere violenti. Bisogna insomma ripartire dalla destrutturazione delle performance e dei ruoli di genere per educare all'empatia e al rispetto.

Infine, qualcosa si sta smuovendo sul versante della responsabilizzazione delle piattaforme, dove i contenuti vengono pubblicati e diventano virali?

Qualcosa si muove, ma ancora troppo poco. Questo però non è affatto un problema solo italiano, anzi, perché Internet non conosce confini nazionali. Sul piano internazionale bisognerebbe quindi prendere delle misure più forti nei confronti di piattaforme private che oggi hanno potere decisionale assoluto su ciò che riguarda la nostra privacy, i nostri dati e i nostri contenuti anche intimi.



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