02/03/2015
Dopo i molti commenti ricevuti dal primo post, ecco un'altra "domanda" per Daniele, psicologo e socio fondatore del CAM (Centro Ascolto uomini Maltrattanti) di Cremona. Volete provare anche voi a dare una risposta, condividere un'esperienza o un dubbio? Lasciate un commento!
Eccoci al primo vero nodo: "Alzare la voce è violenza?". Quando faccio questa domanda, spesso gli uomini rispondono con altre domande: "Che intendi per alzare la voce? Quanto alta?" "E se non mi sta a sentire?" "Ma quando comincia lei?" E così via. Per trovare una risposta, dovremmo cominciare a capire verso dove dirigere l'attenzione, provando a spostare lo sguardo da noi stessi all'altra persona. Perché se guardiamo al nostro agìto in sé, a ciò che noi facciamo solo dal nostro punto di vista, ci risulta difficile capire. È forse guardando il riflesso del nostro alzare la voce sull'altra persona, sulla nostra compagna o i nostri figli, che possiamo riconoscere l'eventuale violenza del nostro comportamento?
Spesso, quando parlo con le vittime di violenza, quello che più mi colpisce è quanto si soffermino non tanto sugli atti contro di loro, ma su chi li compie: "Vederlo reagire così scompostamente..." "Quei gesti inaspettati e la voce che ingrossa..." È la sorpresa di vederci improvvisamente cambiare. A volte basta una parola tagliente o un tono alterato, e chi ci è vicino rimane di stucco. Magari solo interiormente. Per questo, per noi è molto difficile notare questi effetti del nostro comportamento su un'altra persona. Lei ce ne parla se le diamo la sicurezza di potersi aprire e comunicare. Solo allora ci dirà del suo completo disorientamento, sia che noi ci esprimiamo contro di lei sia che ci rifacciamo contro noi stessi.
Inizialmente è la paura di capire che forse non ci conosce come credeva, che qualcosa di noi, qualcosa di molto grosso, era rimasto nascosto: "Ho l'impressione di non conoscerti...". Poi se le nostre reazioni persistono non c'è più la sorpresa, ma la paura è ormai attivata. "Sono ancora tutta tesa - dice lei - Prima quando ti ho visto innervosirti così al computer mentre lavoravi mi sono sentita morire, quasi non volevo respirare." Il marito mi dice poi in un colloquio che non si era accorto di niente, anche perché i suoi gesti nervosi e la voce che imprecava non erano rivolti contro di lei; ma lei si era rimpicciolita, al punto forse di voler sparire.
Talvolta intorno a noi creiamo deserti di solitudine, di disperazione, di angosce. Nel momento in cui creo nell'altra il timore di parlare, o una svalorizzazione, sto commettendo una violenza. Quando discutiamo, alzando la voce, lei tace improvvisamente perché si rende conto di avere clamorosamente torto ("Hai visto che avevo ragione io?") oppure perché l'abbiamo sminuita o disorientata? La nostra responsabilità si fa pesante; l'osservarci come in uno specchio o l'ascoltarci mentre la voce cresce potrebbe aiutarci.
La voce che cresce... Ma perché? Da dove nasce quel grido? La domanda ci richiede di guardarci dentro: quando urliamo, cosa sentiamo? Rabbia? Chi abbiamo di fronte? Se reagiamo così, è possibile che ci sentiamo minacciati. Forse ciò che ci muove è la paura che qualcosa venga messo in discussione. In ogni caso, sentiamo che dobbiamo difenderci e dunque scegliamo di attaccare, perché ci hanno educati così. Ciò che minacciava lo vogliamo minacciare, ciò che ci faceva paura vogliamo impaurirlo.
Chi ci sta di fronte ne fa le spese, ma il punto è: ciò che ci impaurisce probabilmente nasce in noi. Un'ottima domanda da porci quando reagiamo con rabbia è: le sue parole, i suoi gesti, che cosa hanno "pizzicato" al nostro interno? Facciamolo quando siamo piú calmi: osserviamoci seduti lì, sulla poltrona, e interiormente. Quando ci ripetiamo le parole altrui che ci hanno fatto reagire, che cosa vediamo e sentiamo? Quale lato di noi si è sentito male? E poi: c'è una tristezza che si nasconde in profondità? È difficile vederla: questa, per difesa, si rannicchia nel guscio delle paure che lei stessa si crea; infine le paure danno moto alla rabbia che, per meccanismo appreso, ci fa agire.
Questo processo è unipotesi, ma di fatto ci spinge ad aprire la visuale. Leggendo questo post, il punto dove dirigere l'attenzione si è spostato continuamente: questo è il lavoro. La violenza corre, veicola, si nutre di noi; ed è chiaro che senza una nostra personale presa in carico, non possiamo avanzare, ma solo inciampare nei suoi meccanismi traditori.
Osserviamoci e ascoltiamoci, ascoltiamoci e osserviamoci.
Immagine di Tommaso Meli da Flickr - CC Creative Commons