di Eddy Anselmi
Dici Sanremo, e pensi alle canzoni, quasi 2.000 brani fatti di musica e parole. Quest'anno diventano 1.921, per la precisione. 1.921 storie che raccontano l'Italia dal 1951 a oggi. 1.921 canzoni scritte per la stragrande maggioranza da uomini. Il primo testo scritto da una donna vince solo nel 1975. Non che i versi di "Ragazza del Sud" della piemontese Rosangela Scalabrino in arte Gilda fossero uno sfoggio di femminismo. La protagonista, una donna dell'Italia contemporanea, visita un paesino dell'entroterra meridionale e rimane colpita da una coetanea ancora immersa in costumi premoderni:
La treccia non la tagli / Sarà il tuo primo amore / a scioglierti i capelli / e allora tremerai
La cantautrice, al limite del reazionario, si ritrova ad ammirare quello sguardo sottomesso, invidiando i costumi riservati e schivi della protagonista:
Ragazza del Sud / darei tutto quanto / per avere il tuo sguardo
Che Sanremo e l'emancipazione femminile non siano mai andati d'accordo lo racconta anche il napoletano Antonio Buonuomo che nel 1976 partecipa al Festival proprio con una caricatura della "Femminista", dove la protagonista, fiera e indipendente in pubblico, nel privato si abbandona all'uomo. Per farsi conoscere, il cantautore mise in scena anche una contestazione a favore di paparazzo: si dovette accontentare di una paginata di rotocalco, mancando tanto l'accesso alla finale del festival quanto la notorietà.
A dir la verità, gli uomini del Festival tendono a mostrare a Sanremo il loro volto più rassicurante, anche un autore come Toto Cutugno, che fa del senso del possesso una delle sue cifre distintive: nel suo repertorio, l'aggettivo più ripetuto è "mia". Nella sola "Donna, donna mia", lo ripete trentatrè volte (ma la canzone non rientra nel repertorio sanremese). Ancora nel 1988, raccontando del suo matrimonio, Cutugno non sfugge all'aggettivo possessivo:
In quella chiesa di periferia / com'eri bella vestita di bianco / com'eri mia
Nel 1986 Cutugno si ferma a un passo dal podio: ancora una volta il protagonista del motivo che porta in gara, compreso in un sentimento di "azzurra malinconia", ripete quaranta volte come l'interlocutrice sia "sua":
mia alla stazione / mia con un gettone / mia con un panino / mia un bicchier di vino / mia su questa spiaggia / mia sotto la pioggia
Ma in uno dei versi successivi, la ricerca parossistica della rima dipinge senza volere uno scenario ambiguo e inquietante:
Mia giù per le scale / mia quando stai male
Nelle canzoni del Festival, il senso del possesso si è esplicitato in versi singoli, rivelatori quanto involontari: Michele Zarrillo, nella sua "Una rosa blu", ipotizzava:
Se fossi mia ti legherei
Mentre nel 1981 Gianni Bella si faceva più esplicito:
Del porno sono il re / Un re senza corona / Quante nevrosi ho / Un re che te le suona / se mi dirai di no
A prefigurare una vera e propria situazione di violenza, ma fuori da Sanremo, c'è Marco Masini, che in "Bella stronza" si sfoga prima minimizzando e facendo la vittima:
Hai chiamato la volante quella notte / e volevi farmi mettere in manette / solo perché avevo perso la pazienza / la speranza
Poi arrivando a confessare di essere tentato di "redimere" la donna per mezzo di uno stupro:
Mi verrebbe da strapparti quei vestiti da puttana / e tenerti a gambe aperte finche viene domattina
Nel verso successivo, l'uomo ritorna apparentemente in sé:
Ma di questo nostro amore così tenero e pulito / non ci resterebbe altro che un lunghissimo minuto di violenza
Masini non si rende conto che questa conclusione, in cui si canta l'alternativa secca tra un amore infantile, praticamente asessuato, e il puro e semplice stupro è ancora più inquietante dei versi precedenti.
Ma difficilmente questi estremi entrano al Festival. Solo in un caso, nella storia di Sanremo, la violenza di genere è stata rappresentata in modo tanto eccessivo da renderla paradossale: "Ho mangiato la mia ragazza / per la mia voglia di conoscere a fondo l'alterità" cantano i "La sintesi", ignorati protagonisti del Festival di Sanremo 2002.
Aveva attirato molto di più l'attenzione Luca Barbarossa nel 1988, raccontando "L'amore rubato" dal punto di vista neutrale dell'osservatore: il cantautore arriva al terzo posto, riceve un telegramma di congratulazioni da Franca Rame (quindici anni prima l'attrice aveva subìto la violenza di un gruppo di uomini che usarono lo stupro per "punire" le sue posizioni politiche) e dichiara a una stampa attonita che tutti gli uomini fanno violenza, in un certo senso, quando insistono senza capire che un no è un no.
Ma non è tanto la canzone, quanto la dichiarazione di Barbarossa ad aprire un mondo: se l'insistenza maschile rivela la mancanza di empatia, se la convinzione che le donne "dicono no ma intendono sì" apre la porta alla violenza, allora le canzoni di Sanremo sono ricche di esempi di violenza psicologica.
Tra gli innumerevoli casi, il debutto di
Gigi D'Alessio nel 2000 con
"Non dirgli mai". Il protagonista dei versi ha la proterva certezza che il nuovo partner della sua ex non conti assolutamente nulla nella vita di lei, sminuisce la loro relazione come "sesso senza cuore" e si dice sicuro che mentre lei sorride, stia "trattenendo il pianto". Sembra innocuo, ma è un esempio sconfortante di
cattiva educazione sentimentale: riconoscendosi nelle insicurezze e nelle retoriche dei Gigi D'Alessio, gli ascoltatori si sentono confermati a utilizzare i medesimi argomenti, ad crogiolarsi nel medesimo vittimismo, a compromettere anche l'ultimo ricordo delle relazioni altrimenti concluse, con un sentimentalismo che si traveste da nostalgia ma che, a ben sentire, non è che rancore.
Benvenuto
nella community a
Eddy Anselmi: giornalista, autore per radio e tv, consulente editoriale,
Eddy ha trasformato in professione la sua enciclopedica passione per la musica leggera e la storia del costume.